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Durante una causa di divorzio, separazione, o mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, uno dei genitori o un coniuge potrebbe perdere il lavoro o diminuire i suoi guadagni. Queste modifiche del reddito giustificano una riduzione dell’assegno di mantenimento per il coniuge e/o per i figli. La procedura prevede che, preso atto delle circostanze che comportano la diminuzione, l’avvocato chieda al Giudice che venga ridotto l’assegno.
In concreto trascorrono mesi prima che venga pubblicata la decisione del Giudice. La decisione avrà però efficacia dal momento – precedente – della richiesta di riduzione (cosiddetta efficacia retroattiva). Nei mesi compresi tra la richiesta di riduzione e la decisione del Giudice, il soggetto obbligato al versamento dell’assegno è pertanto ancora costretto, in forza del vecchio provvedimento, a versare l’intero assegno di mantenimento, pur se divenuto troppo oneroso per lui. Ciò comporta che possano risultare versate somme che, alla luce della nuova misura dell’assegno, non erano dovute.
Una volta pubblicato il provvedimento di riduzione dell’assegno di mantenimento, si possono recuperare gli importi pagati in eccedenza?
La questione è molto complessa e non ha soluzioni chiare e certe. Gran parte delle sentenze di Cassazione hanno infatti inizialmente affermato che l’assegno di mantenimento del figlio, sia minorenne che maggiorenne e non autonomo, e successivamente anche l’assegno del coniuge, hanno natura “sostanzialmente alimentare“.
L’assegno alimentare è quello regolato dagli articoli 433 e seguenti del codice civile, che si differenzia dall’assegno di mantenimento (che copre anche necessità quali istruzione, svago, sport etc.) per riguardare le sole spese necessarie alle esigenze primarie di vita (cibo, alloggio). L’assegno alimentare, proprio per la sua natura, che può definirsi primaria e fondamentale, non può essere pignorato, né restituito ove versato in eccedenza. Inoltre, le somme versate in maggior misura non possono neanche essere tenute in conto in vista delle mensilità successive, nel senso che il soggetto tenuto al pagamento dell’assegno alimentare non può, legittimamente, trattenere ciò che ha versato in più dal versamento del mese successivo (cosiddetto divieto di compensazione).
Estendendo tali principi all’assegno di mantenimento, può accadere quanto segue:
Tizio perde il lavoro e chiede, a gennaio, la riduzione dell’assegno di 300€; il giudice, a giugno, riduce l’assegno a 100€. Per i mesi da gennaio a giugno, Tizio era ancora obbligato a versare 300€ in forza del vecchio provvedimento, ma la nuova pronuncia del giudice, pur pubblicata a giugno, ha effetto da gennaio, data della domanda. E allora, se Tizio ha versato 300€, sebbene oltre le sue possibilità, egli non potrà “toglierli” dagli assegni che verserà da luglio in poi (non versando alcun assegno o versandolo ridotto fino al recupero delle somme versate in eccesso). Né potrà richiederli indietro con autonomo giudizio o autonoma domanda.
Per cercare di ridurre questi inconvenienti, che portano a danni economici tanto maggiori quanto più tardiva la decisione del giudice, all’orientamento prevalente sopra descritto ha cercato di porre freno una serie di sentenze – della Cassazione e dei Tribunali o Corti d’Appello – che hanno ridotto l’estensione di questo principio di equivalenza tra assegno di mantenimento e assegno alimentare.
In particolare, si è affermato che la natura alimentare non sarebbe propria dell’assegno del coniuge, ma solo di quello del figlio; o, ancora, che in entrambi i casi la natura alimentare andrebbe verificata in concreto con riguardo al caso specifico e alla misura (eventualmente troppo alta per coprire i soli bisogni essenziali) dell’assegno stesso.
Queste pronunce hanno portato a condannare, nell’ambito dello stesso giudizio di separazione, divorzio, o mantenimento del figlio, il soggetto beneficiario dell’assegno alla restituzione delle somme percepite in eccesso. O, ancora, hanno giudicato legittimo l’omettere o ridurre il versamento dell’assegno fino al recupero delle somme versate oltre il dovuto. Questo indirizzo è però ancora minoritario.
Ciò comporta che, ad esempio, il coniuge che ha diritto all’assegno possa pignorare i conti del coniuge che non versa l’assegno o non lo versa intero, sebbene quest’ultimo abbia perso il lavoro, essendo tenuto ancora a pagare il precedente assegno prima della nuova decisione del giudice.
In tal caso, stante la difficile situazione attualmente delineata dalla giurisprudenza, in qualità di avvocato divorzista il mio consiglio è di versare, dal momento della richiesta di riduzione, un assegno ridotto in misura parziale e prudente. Se il coniuge effettuerà un pignoramento, nel tempo necessario allo svolgimento del processo esecutivo interverrà sicuramente la decisione del giudice di famiglia che effettuerà la riduzione. L’importo non versato non sarà quindi più dovuto (o addirittura risulteranno importi versati in sovrappiù) e il coniuge non potrà proseguire il pignoramento e potrebbe anzi essere condannato al pagamento delle spese dello stesso.
Salve,
è possibile avere i riferimenti di qualche sentenza che confermi la restituzione della cifre in eccesso, nel caso di assegno di mantenimento del figlio.
Grazie
Gentile Marco, le sentenze di merito (ossia quelle dei Tribunali e delle Corti d’Appello) non sono accessibili pubblicamente, ma sono visibili solo in database dal costo elevato riservati ad avvocati, magistrati e pubbliche amministrazioni. Dietro il reperimento dei singoli precedenti giurisprudenziali c’è inoltre un enorme lavoro di studio che non potrei rendere pubblico in questo commento, poiché sarebbe così fruibile anche a eventuali avvocati “concorrenti”. La invito pertanto, qualora avesse necessità, a chiedere una consulenza col modulo apposito. Cordiali saluti
Avv. Dottoranda Stefania Flore