La legge 20 maggio 2016, n. 76, sulla regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, disciplina le convivenze all’articolo 1, dal comma 36 al comma 65.
Si distinguono due tipi di convivenze, a prescindere che si tratti di coppia dello stesso sesso o eterosessuale:
- le convivenze ufficializzate da un contratto di convivenza ex art 1, comma 50, della suddetta legge;
- le convivenze di fatto non regolate da un contratto
Il contenuto del contratto di convivenza
Ai sensi dell’articolo 1, comma 53, i conviventi possono utilizzare il contratto per determinare le modalità attraverso le quali ciascun convivente contribuisce alla vita comune (lavoro casalingo o professionale). Inoltre possono indicare il regime patrimoniale scelto, similmente a come fanno i coniugi: mentre per questi ultimi il regime ordinario è la comunione legale, la quale si applica senza che i coniugi debbano fare alcuna dichiarazione, per i conviventi il regime automaticamente vigente è la separazione dei beni. Nel contratto potranno perciò dichiarare di scegliere il regime di comunione legale e quindi disporre che ogni bene acquistato insieme o da uno solo dopo il contratto di convivenza, venga automaticamente intestato in proprietà a entrambi, anche se pagato con denaro in proprietà esclusiva.
Nel contratto potrà infine prevedersi l’obbligo del convivente di versare all’altro un assegno a titolo di mantenimento dopo la cessazione della relazione.
Le convivenze regolate da contratto di convivenza
Il contratto di convivenza è un contratto formale: per la sua validità deve essere redatto in forma scritta. Inoltre, a pena di nullità, deve rivestire la forma dell’atto pubblico oppure della scrittura privata; in quest’ultimo caso la firma dei conviventi dovrà essere autenticata da un notaio o da un avvocato. Si ricorda che l’autenticazione è l’operazione con la quale l’avvocato, dopo aver verificato che le persone che firmano sono effettivamente i contraenti indicati nell’atto, appone la propria firma sotto quella delle parti. Entro 10 giorni dalla stipula, il contratto deve essere trasmesso al comune di residenza delle parti. In questo modo chiunque può venirne a conoscenza e la convivenza e l’eventuale regime patrimoniale scelto potranno avere effetti verso i terzi. Ciò significa che chi acquista un immobile dal convivente in regime di comunione, dovrà assicurarsi della proprietà comune o meno del bene.
Il contratto di convivenza è nullo se un convivente è già sposato, se il contratto non rispetta la forma sopra indicata, se un convivente è minorenne, interdetto o legato al partner da rapporti di parentela, affinità o adozione. Il contratto si scioglie automaticamente se i conviventi si sposano (assieme o con una terza persona), per consenso di entrambi, per volontà di un solo convivente, o per la morte di un convivente.
Lo scioglimento del contratto per volontà di una o entrambe le parti deve rivestire la stessa forma del contratto (scritta, con atto pubblico o scrittura privata autenticata da notaio o avvocato). Se le parti erano in regime di comunione dei beni, questa si scioglie e potranno, analogamente ai coniugi, dividersi il patrimonio comune, come immobili o altri beni.
Lo scioglimento del contratto di convivenza per volontà di un solo convivente deve essere notificato all’altro, il quale avrà minimo 90 giorni di tempo per trasferirsi e restituire la casa al proprietario.
Le regole delle convivenze di fatto “semplici”
La stessa legge prevede delle regole applicabili ad ogni tipo di convivenza, a prescindere dalla sussistenza di un contratto che renda ufficiale la situazione di fatto. L’unica condizione richiesta per l’applicabilità di queste regole è lo status di convivente stabile: sarà dunque necessario che entrambi i conviventi abbiano formale e stabile residenza presso lo stesso indirizzo.
Tali regole saranno applicabili anche alle convivenze regolamentate da contratto, salva diversa previsione contenuta al suo interno.
I conviventi hanno gli stessi diritti di visita dei coniugi in caso di reclusione o ricovero sanitario dell’altro convivente. Inoltre un convivente potrà delegare il proprio partner come suo rappresentate dopo la propria morte o una malattia che determini l’incapacità di intendere e volere. Può anche essere nominato tutore, amministratore di sostegno o curatore del proprio partner. Il convivente di fatto che lavori nell’impresa familiare, vanta dei diritti sulla percezione di utili e beni nell’impresa stessa.
A seguito della morte di un convivente, l’altro ha diritto di continuare ad abitare nella casa comune per un periodo minimo di due anni, o tre se il convivente vive nella casa assieme ai propri figli minori o diversamente abili. Tale durata può estendersi fino a un massimo di cinque anni se la convivenza durava più di due anni. Ancora, il convivente può succedere nel contratto di locazione già stipulato dal proprio partner defunto.
Tali diritti riguardanti l’abitazione cedono però a favore dell’assegnazione della casa coniugale. Ove il convivente defunto avesse, in precedenza, sposato un’altra persona e avuto dei figli con la stessa, il Tribunale potrà disporre che l’ex casa coniugale (che coincida con la casa dei conviventi) sia assegnata all’ex coniuge affidatario dei figli, che vi vivrà insieme a questi ultimi.
La disposizione di maggiore importanza è contenuta nell’articolo 1, comma 65, della legge: quando finisce la convivenza di fatto, a prescindere dall’ufficializzazione della stessa con contratto di convivenza, il giudice può disporre che un convivente sia obbligato a versare all’altro un assegno di natura alimentare. La durata dell’assegno è stabilita in maniera proporzionale alla durata della convivenza.
Il presupposto è che l’altro convivente sia in stato di bisogno: si rimanda alla giurisprudenza sull’assegno alimentare di cui all’articolo 438 del codice civile. In sostanza il convivente, per poter beneficiare dell’assegno, dovrà essere privo un reddito che gli consenta di provvedere ai propri bisogni primari di alimentazione, vestiario, alloggio, e simili. Si considerano sia le entrate periodiche (stipendio, assegni sociali, pensione) che i risparmi (conti in banca) o gli immobili che possono essere venduti o messi a frutto. Il richiedente l’assegno alimentare dovrà provare, oltre all’insussistenza di redditi sufficienti, anche l’impossibilità di procurarseli lavorando. L’ultima parte del comma 65 dispone inoltre che, nell’ordine dei soggetti tenuti a versare gli alimenti, il convivente viene collocato al 6 posto, prima dei fratelli e delle sorelle del convivente bisognoso.
Il convivente che si trovi nelle condizioni economiche e personali sopra descritte, dovrà pertanto citare l’ex convivente davanti al Tribunale per ottenere l’assegno alimentare, solo se nessun altro familiare di cui all’articolo 433 del codice civile (figli, anche adottivi, genitori o adottanti) è in grado di corrispondere l’assegno alimentare. La domanda non è cumulabile con quella relativa all’affidamento e mantenimento dei figli minori.
Si segnala infine che, in via giurisprudenziale, è stato stabilito il diritto del convivente che abbia investito il proprio denaro per ristrutturare, migliorare o acquistare una casa intestata esclusivamente all’altro, a ottenere da quest’ultimo una somma di denaro a titolo di ingiustificato arricchimento.